Ci sono cose che hanno un fascino innegabile, un’eternità solida e certa ed un background talmente radicato da aver costruito un immaginario comune ormai noto a tutti, di quelli che è impossibile non riconoscere per le sue peculiarità, la sua tradizione e il suo charme intramontabile; se vi parlassi ad esempio di “stile anni ‘50”, cosa vi verrebbe in mente? Rockabilly, muscle car, auto con le pinne, juke-box, brillantina e gli iconici Diner e Fast Food dove gli americani consumavano colazioni, pasti veloci e cene, lungo le trafficate highway statunitensi.
Con il sottoscritto poi giocate in casa: serate a tema, gli immortali successi di Chuck Berry e Johnny Cash e il Boogie Woogie più scatenato (e imbranato) che possiate immaginare.
Malattie insomma, condivise, soprattutto da Riccardo La Corte, il Big Boss che nel 2008 insieme al socio Stefano Landi inaugurò a Forlì il primo di una lunga serie di locali di quello che poi sarebbe diventato il franchising America Graffiti, ad oggi attivo su tutto il territorio nazionale con ben 63 filiali, e circa una dozzina in prossima apertura.
Un successo a dir poco immediato, grazie ad un immagine fortemente ispirata alla ristorazione americana di quegli anni, con una proposta ampia e tipica e un format raddoppiato: l’American Diner (con prima apertura nell’odierna sede centrale a Forlì) e l’American Fast Food (inaugurazione nel 2010 a Forlimpopoli).
Il nome “Diner” riprende le Dining Cars, le carrozze dove il cibo veniva servito “on the road”, e sottintende quei locali che solitamente in USA e Canada nascevano come vere e proprie tavole calde a lato delle strade, con le caratteristiche linee curve, gli interni scenografici e illuminati dalle luci al neon, arredati con targhe automobilistiche e oggetti di modernariato: tavoli con rifiniture metal flake, balconi con sgabelli alti e gli iconici pavimenti a scacchi.
I ristoranti “Fast Food” sono invece fedeli alla nomenclatura inglese, che ben rappresenta i locali da pasto veloce (per preparazione e consumo), prediligendo per altro il servizio al bancone.
L’intento di America Graffiti è proprio quello di riportare nel Bel Paese il mito americano anni ’50, facendo respirare al cliente la sua aura eterna e di innegabile fascino.
E’ comunque utile e necessario analizzare i presupposti: mentre il pretesto di realtà come le già trattate Roadhouse e Old Wild West è quello di proporsi come “valida” (ma inadeguata) alternativa alle iconiche Steakhouse americane, la volontà del Big Boss è ben più giocherellona e romantica, nata da una passione dichiarata per un background culturale ben preciso, e dalla volontà di riproporlo al cliente stesso, catapultandolo in una cena a fianco di una gigantesca muscle car.
Un format, il suo, che “fa il verso” a realtà pre-esistite rimodellandole in un’offerta limpida e chiara, senza troppi fronzoli o megalomanie insensate; si permette di volare decisamente più basso, con nessuna particolare pretesa se non quella riguardante il cibo servito, fortemente ispirato all’immaginario gastronomico americano.
E dobbiamo ammetterlo, il mondo di America Graffiti è decisamente magico e rievocativo, a partire dagli interni e dagli arredi, dalle pareti colme di targhe, immagini pulp e citazioni, ma soprattutto dal sottofondo musicale recuperato dall’immenso e ritmato repertorio Rock’n’Roll.
Peccato solo per il personale, poco ispirato e abbastanza sbrigativo, soprattutto nel pulire i tavoli appena liberati, nota decisamente negativa.
Noi siamo stati da America graffiti (versione diner) durante una pausa pranzo, ma l’impressione è che luoghi simili tirino fuori il meglio durante la cena, soprattutto nei ristoranti più ampi e adibiti alla musica live.
Forte è l’impressione di trovarsi a fianco di Vincent Vega e Mia Wallace, in procinto di buttarsi sul palco per un’improvvisata gara di ballo, o di vedere interrotta la propria colazione di uova, bacon e pancakes da una grottesca rapina per mano di Zucchino e Coniglietta.
Tornati con i piedi per terra, concentriamoci sul menu dell’America Graffiti; dire che l’offerta è ampia è un eufemismo: disponibile anche online, la carta si distingue in base al tipo di format, con un menu più ristretto e stilizzato per la versione Fast Food, che grazie a indice e immagini tenta di velocizzare l’esperienza del cliente, aiutandolo a comprendere e focalizzare la scelta.
Le ben 16 pagine della versione Diner permettono invece maggiori spazi e libertà, includendo per gran parte delle voci anche una chiara spiegazione circa gli ingredienti, i metodi di preparazione e (udite udite) anche provenienza generica della carne e del taglio; una P rossa, una V verde scuro e una verde chiaro indicano inoltre se il prodotto è, rispettivamente, piccante, vegetariano o vegano.
Si comincia con una vasta scelta di birre (alla spina o in bottiglia) e drink; noi abbiamo provato la Newcastle Brown, una rossa alla spina tutt’altro che malvagia.
Selezionato il carburante, si passa agli appetizers, a scelta tra Finger Food e Nachos, oltre che a una piccola selezione di Brunches e Poutines, i classici Brunch americani serviti anche a colazione, che includono ad esempio le blasonate uova a occhio di bue o strapazzate, bacon croccante, salsiccia grigliata, pancakes caldi e patate fritte o rosty.
Noi abbiamo preso le Teezer Chese, crocchette di patate leggermente piccanti con cuore di formaggio fuso, abbastanza anonime e poco saporite.
La pagina successiva è dedicata ai primi piatti, le sezioni Italy in America e Italy in Italy, con particolar menzione per gli iconici Spaghetti Meatballs e Macaroni & Cheese.
Perdonerete il pregiudizio italico, ma ci siamo premurati di saltare “a pie pari” tale area del menu, che riporta per altro la dicitura “prodotto surgelato all’origine” per gran parte delle voci, pasta compresa.
Nonostante ciò, abbiamo notato parecchi individui coraggiosi intenti a consumare strabordanti piatti di Spaghetti al Pomodoro e Basilico.
So’ scelte.
Passato il doloroso (ma comprensibile) scoglio, si passa ai piatti forti, con la sezione Best Grilled che dalla New York Steak alla T-Bone riporta come già accennato grammatura, indicazioni sul taglio e in alcuni casi anche sulla provenienza della carne; ogni bistecca viene servita con un mix di insalata e un contorno a scelta tra patate, coleslaw, fagioli e altri sfizi.
Le pagine preferite da Vincent Vega e Jules Winnfield non tardano ad arrivare: Hot Dog con wurstel artigianale del Südtirol, sandwich con Pastrami, Pulled Pork, Grilled e Crispy Chicken, ma soprattutto una svariata scelta di hamburger: i cosiddetti Big Boss Favourites (banalmente, i quattro panini più famosi della catena) e 8 panini caratterizzati dalla monotonia di scelta tipica di un Fast Food (classic, cheese/bacon cheese burger, ecc..), per ognuno dei quali è possibile scegliere tra tre formati (Graffiti, Tuscany e Giant) nei quali può variare il pane, la carne o la dimensione.
Ci siamo fatti portare il Chili Burger, “il preferito del Big Boss”, con 100g di hamburger di bovino adulto, chili con carne homemade America Graffiti, fettine di formaggio al cheddar, jalapenos a rondella e cipolla fresca.
Per carità, siamo sul mangiabile, e il Chili non è poi così cattivo; il problema è tutto il resto: pane di carta e con evidenti segni di tostatura non uniforme, formaggio e cipolla inesistenti, ma soprattutto un patty duro e insapore, che resisteva persino alla rottura con la forchetta. Sono rimasto abbastanza colpito, riguardando il menu, che non riportava nemmeno la dicitura “surgelato”, presente invece per il solo Chili. Non si salvano nemmeno le patatine, decisamente gommose e per nulla fragranti, per le quali siamo ben contenti che il quantitativo fosse scarso.
Si passa poi alla sezione Barbecue & Glazed Meat, con gli iconici Pastrami, Pulled Pork e Barbecue Ribs; ci siamo fermati anche qui ordinando delle Jackson Lamb Chops, cinque costine di agnello (surgelate) glassate con salsa barbecue e sfumate nel Jack Daniel’s, servite con patatine fritte, coleslaw e cetriolini.
E’ il piatto che ci è piaciuto di più: la carne era abbastanza tenera e la cottura dell’agnello corretta,leggermente avanti, ma comunque rosata e uniforme. Purtroppo l’eccesso di una salsa barbecue di qualità non eccelsa copriva completamente non solo il sapore dell’agnello (impedendoci, forse volutamente, di carpire qualche informazione aggiuntiva) ma anche della sfumata di Jack Daniel’s, per nulla percepita.
Niente da dire sulla coleslaw, apprezzabile, fresca e ben condita.
Chiudono la carta una valanga di piatti Tex-Mex (Chili, Fajitas e Burritos), le Salads, il menù per bambini e qualche promozione.
Non abbiamo provato i dolci (numerosissimi), per i quali è necessario chiedere un menu dedicato al cameriere, e che includono comunque i classici Brownie, Waffle, Cheesecake ed Apple Pie.
Un’esperienza, la nostra, decisamente mediocre, ma che apre comunque qualche piccolo spiraglio di miglioramento, a partire dall’innegabile ambiente evocativo e ben studiato, dalle indicazioni precise e inaspettate sul menu, fino ad arrivare all’assenza di quel senso di gonfiore e pesantezza post-pranzo, tipico di questi luoghi, e a un prezzo decisamente più basso rispetto alla concorrenza.
Parliamo di hamburger che vanno dai 6.90 ai 12.90 euro (senza includere le insane versioni giganti), di bistecche che vanno dagli 8.20 del pollo o della fettina di scamone ai 19.90 per i 600g di T-Bone, sensibilmente meno rispetto alla media; prezzo fisso di 12.50 invece per tutta l’offerta BBQ, apprezzabile visto quanto riscontrato all’assaggio.
Di quelli che non si lanciano in pretese megalomani e che mette le mani avanti sui chiari intenti e sui lampanti difetti; il loro impegno, di fatto, si concentra sull’ambiente, sulla proposta di un background culturale, di un mito evocativo.
L’assenza di spocchia è il vero punto di forza della catena, a dimostrazione che nel vasto mondo del marketing non è il cosa si vende a fare la differenza, ma il come.
A volare più basso, del resto, ci si fa meno male.
[Crediti: America Graffiti | Immagini: Alessandro Trezzi, America Graffiti ]
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