Quando ho deciso di scrivere un articolo sulla bistecca alla fiorentina, l’ho fatto dopo averci pensato almeno due giorni, dopo aver partecipato a qualche seduta di terapia dallo psicologo per fortificarmi spiritualmente e dopo aver sciolto il sale insieme a Wanna Marchi e a Do Nascimento.
Già, perché ultimamente alle parole bistecca alla fiorentina si scatena l’inferno. Ma non l’infernuccio all’acqua di rose di Massimo Decimo Meridio, proprio quello terribile dantesco con tanto di diavoli sadici, Lucifero imbestialito e dannati bruciati vivi. E io che sono toscana non posso sottrarmi a questo scenario: devo dire la mia.
Girando un po’ nei vari gruppi di appassionati di braci, ho raccolto diverse informazioni, tante quanti sono gli utenti che le hanno scritte, su come dovrebbe essere la Vera Bistecca Alla Fiorentina. Ve le elenco subito:
Faccio subito una premessa: in questo post NON dirò come debba essere cucinata la vera bistecca alla fiorentina. Non ho la pretesa di avere la verità in tasca. Però dirò cosa ne penso di tutto il caos che si è scatenato intorno all’argomento, cercando di tirare un po’ le somme, chiarire alcune informazioni confusionarie che in molti sembrano avere e ristabilire, se possibile, la pace.
Secondo alcune fonti, si deve la nascita della bistecca alla fiorentina, manco a dirlo, alla famiglia de’ Medici, che governarono Firenze tra 1400 e il 1700. Pare che fosse una tradizione, ogni 10 Agosto (per S. Lorenzo), offrire ai fiorentini numerosi quarti di bue che, a quanto sembra, venivano cotti direttamente sui falò disseminati per la città. Sembra che le fette di manzo che oggi identifichiamo come “fiorentine” venissero chiamate “carbonate”, poiché cotte a contatto diretto con le braci. Secondo la leggenda, verso la metà del ‘500, alcuni inglesi che si trovavano a Firenze per affari economici, dopo aver assaggiato le “carbonate”, esclamarono “Beef Steak!” per averne ancora. Da qui il nome “bistecca”.
Quindi, stando a questa ricostruzione storica, il metodo più tradizionale di cuocere la bistecca alla fiorentina sarebbe farlo direttamente sulle braci.
Secondo altri, invece, si deve il nome “bistecca” sempre agli inglesi, ma molto più avanti nel tempo, nel 1800, quando questi ultimi si insediarono in Toscana e insegnarono ai macellai a tagliare la carne del manzo in quel determinato modo.
Di certo sappiamo che la parola “bistecca” compare ufficialmente per la prima volta all’Esposizione di Parigi nel 1889, quando, esposta nel padiglione italiano, venne presentata come un piatto toscano (e a quel tempo Toscana era più o meno sinonimo di Firenze, essendo quest’ultima la città più conosciuta).
C’è addirittura chi sostiene che in realtà la bistecca sia stata “inventata” a Livorno, il cui porto era uno degli scali più importanti e luogo in cui la comunità inglese era molto presente e ben inserita in città.
Ecco cosa dice l’Artusi:
(…)non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella (…)
Mettetela in gratella a fuoco ardente di carbone, così naturale come viene dalla bestia o tutt’al più lavandola e asciugandola; rivoltatela più volte, conditela con sale e pepe quando è cotta, e mandatela in tavola. Non deve essere troppo cotta perché il suo bello è che, tagliandola, getti abbondante sugo nel piatto. Se la salate prima di cuocere, il fuoco la risecchisce, e se la condite avanti con olio o altro, come molti usano, saprà di moccolaia e sarà nauseante.
Carne rosa, dunque, e frollata a perfezione. Mi spiego: frollata nel suo quarto, sennò inaridisce. Cinque, sei giorni di ghiacciaia, meglio sette. E che non abbia filamenti. E tagliata con maestria, che la costata venga fuori dal quarto tutta intera, filetto e controfiletto. E che sia almeno di quattro etti, ma l’ideale è di sei. Ora ci vuole fuoco di brace e di legna. E una gratella. La bistecca non va lavata né salata. Olio niente. Quando si gira, un pizzico di sale grosso e pepe.
Perché poi – fuori di Toscana – un la sanno nemen tagliare: la fanno bassa, senza filetto… Basta tu guardi le bistecche disossate! Icché le sono: braciole! Ma pe’ noi la bistecca… arta tre diti! Ma un la sanno nemmen còcere… la bistecca: zàzzà! e via!
Deve essere solo di Chianina, tuonano alcuni (Santini è stato uno che ha avvalorato molto questa tesi ne“La cucina fiorentina: storia e ricette”, paragrafo “Il romanzo della Bistecca ci porta negli Stati Uniti”). Peccato che Dario Cecchini, ad esempio, considerato da moltissimi il re della bistecca alla fiorentina, non usi la Chianina. E quand’anche fossimo d’accordo sul fatto che il Cecchini non si meriti tale titolo e sul fatto che il suo locale sia soprattutto un posto per turisti un po’ sopravvalutato (ho scritto io stessa la recensione sull’Officina della Bistecca, che potete leggere qui), possiamo affermare che il Cecchini non cucini comunque fiorentine? Possiamo dire a Cecchini: chiamala solo bistecca, ma non bistecca alla fiorentina, come ho letto su qualche commento in cui si affermava che se non è di Chianina non può essere considerata “pura”?
Direi di no.
E adesso tocca affrontare il vero punto nevralgico della questione. Nominerò l’innominabile, il mostro contro cui si scagliano i tradizionalisti, quello che da molti è considerato il Nemico Numero Uno della fiorentina, peggio di Voldemort per Harry Potter o di Joker per Batman; prometto, lo dirò sottovoce e dopo essermi guardata intorno con fare sospetto: sto parlando del temibile e diabolico Reverse Searing (se non sapete cosa sia, leggete qui).
La vera domanda da porsi in merito alla diatriba se sia legittimo o meno usare il reverse searing sulla fiorentina è: perché non dovrebbe esserlo?
Come vi ho dimostrato poco fa, perfino le fonti storiche (o presunte tali) non sanno dare una risposta univoca su quale sia il vero metodo di cottura di questa deliziosa preparazione. Non vedo quindi il motivo per il quale un metodo diverso, più innovativo, sia meno dignitoso di quello tradizionale.
Intendiamoci, è altrettanto sbagliato dire che tutti coloro che non usano il reverse searing sono degli imbecilli trogloditi, perché fino a prova contraria ognuno a casa sua fa quel che vuole. Ho mangiato fiorentine cotte con reverse searing che facevano pena e fiorentine cotte con metodo tradizionale veramente deliziose. Tuttavia non comprendo la chiusura mentale contro un metodo che non snatura affatto la bistecca alla fiorentina, non la rende meno fiorentina rispetto al metodo più tradizionale. Chiusura mentale che, oltretutto, non è neanche supportata da un dato storico effettivo, che identifichi la preparazione di questo piatto in un solo modo ben preciso. Prova ne sono anche i mille metodi diversi di cucinarla, tutti identificati come “tradizionali” dai vari utenti di gruppi Facebook o dei forum.
Vi immaginate se ai tempi dei Medici ci fosse stato Facebook? Con gli inglesi a rivendicarne la paternità e i fiorentini puristi della lingua a dire non si chiamava affatto “bistecca”? O ai tempi dell’Artusi? Quanti “coglione, deve essere cucinata in piedi sull’osso: come fa una bistecca di un dito a stare in piedi?” si sarebbe beccato il povero Pellegrino?
La bistecca alla fiorentina che oggi conosciamo è passata attraverso i secoli e si è evoluta. Perché il reverse searing non potrebbe essere per noi oggi quello che è stata la griglia rispetto alla cottura a contatto diretto con le braci: innovazione?
Tralasciando, infine, i commenti ridicoli che associano la virilità alla cottura più o meno al sangue, posso solo dire una cosa: prima di giudicare, provate. Poi, solo poi, scegliete il metodo e il grado di cottura che più si adatta al vostro gusto. Fate questo salto nel vuoto. Innovazione non è sinonimi di imposizione: nessuno vi imporrà un metodo. Ci saranno quelli che cambieranno idea e quelli che rimarranno legati al proprio metodo tradizionale.
Ma nessuno potrà dire all’altro: non stai cucinando una vera fiorentina.
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Tutti in piedi, standing ovation per questa perfetta spiegazione! Grazie Coach Michela
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