Siamo stati invitati ad un pranzo presso il Podere di Binse di Fagnano Olona (VA), una splendida azienda agricola del varesotto specializzata nell’allevamento del Bovaro del Bernese. E cosa c’entrerà mai il chimichurri con i cani da custodia?
Adesso ve lo spiego.
Dunque, i cuochi dell’evento erano due simpaticissimi asadores argentini, Cacho e Luis, che hanno sfamato un esercito di carnivori con salamelle, costine di maiale, pollo e pancia di vitellone; lunghe griglie distanti qualche spanna da un letto di brace uniforme, un calore quieto e costante tenuto a bada da periodici refill di carbone presi con la pala da un mezzo barile metallico, una semplice (ma mai banale) preparazione di sale e pepe fatti aderire alla carne con dell’olio di oliva, e una cottura diretta bassa di circa 3 ore con continuo mopping a base di olio.
Un risultato a dir poco eccezionale: se gli Stati Uniti sono il regno delle indirette Low&Slow e Hot&Fast, i sudamericani sono senza dubbio tra i migliori a esaltare i benefici della cottura diretta.
Ma ciò che mi ha stupito quel giorno è stata una salsina di accompagnamento servita ad ogni tavolo, il Chimichurri, che ancora non avevo avuto modo di assaggiare.
Lasciatevi dire che l’impatto è stato a dir poco stratosferico: una complessità aromatica chiara e distintiva, ingredienti freschi e decisi che si sposano perfettamente con preparazioni di questo tipo, nelle quali si punta ad esaltare le caratteristiche principali della materia prima senza utilizzare rub complessi o salse per la laccatura.
Ad abbuffata terminata sono ovviamente corso a chiaccherare con il buon Cacho, riuscendo (tra le massime di cultura e tradizione argentina) a tirar fuori almeno gli ingredienti principali della beneamata salsa.
Credete che mi sia bastato?
Chiaramente no.
In cucina ho un grosso e terribile difetto: prima di buttarmi su una novità, il quantitativo di studi e ricerche superano l’indicibile, e la mia prima volta arriva spesso da una sicurezza (quasi) acquisita o da occasioni dell’ultimo momento.
Ecco il motivo per cui ne stiamo parlando dopo un po’, a pochi giorni dal mio primo Chimichurri, dopo aver spulciato Churrasco di Evandro Caregnato (la salsa è ormai diffusa in tutto il continente) e aver ricevuto delucidazioni da un paio di ragazzi dell’Italian Style BBQ Team, esperti in quanto aventi sudamericani in famiglia.
Una doverosa premessa: l’imprinting del blog non cambia, e questa NON è una ricetta.
Lungi da me darvi dosi spannometriche di qualsiasi cosa troviate tra le pagine di Pulp Movie House; il mio intento rimane quello di darvi una mano nel comprendere cosa state facendo e come renderlo possibile.
Tutto chiaro?
Si parte.
Trattandosi di una salsa fredda, l’attenzione per la materia prima vale qui più che altrove.
La prima cosa da fare quindi è prendere il vostro frullatore, spalancare la finestra e buttarlo di sotto (stando attenti ai passanti, ovviamente).
Preservare la freschezza di ogni componente è essenziale per la complessità aromatica del Chimichurri; le lame rotanti di un mixer generano attrito e trasmettono calore, provocando una sensibile perdita di carattere.
Ancora, abbiamo bisogno di contestualizzare la ricetta senza impazzire sulla provenienza e la tradizione, con il rischio di incappare in fornitori dubbi e poco seri.
Se avete modo di recuperare la materia prima originale tanto meglio; in caso contrario, il trucco è fare bene la spesa: verrà fuori qualcosa di diverso, certo, ma di qualità.
Vediamo quindi gli ingredienti essenziali e tipici della ricetta:
Olio: la ricetta originale prevede dell’olio vegetale, per non sovrastare il gusto nell’insieme; io, da buon italiano, cerco di non privarmi del mio beneamato Extravergine di Oliva, perché mi piace che il profumo si senta. Occhio però, il concetto primario vale nella maniera più assoluta, non deve coprire la freschezza di prezzemolo e origano. Consiglio quindi un buon Frantoio, senza spingervi verso l’amaro del Coratina.
Aceto: ciò che vi serve, come in ogni salsa che si rispetti, è un’acidità che trascorso il giusto tempo doni equilibrio all’insieme. L’aceto è sempre la prima scelta, e forse anche quella più rischiosa; il bilanciamento del suo carattere con il profumo è fondamentale, pena l’inevitabile asprezza del prodotto finito. Io preferisco un buon aceto di vino bianco, più intenso e aromatico di quello di mele, adatto a far sviluppare nella salsa tutti sapori che la contraddistinguono.
Aglio: qui scatta la legnata. Chi è poco abituato a usarlo tende a far di tutta l’erba un fascio, comprandone una qualità a caso e usandone un terzo di quanto occorre per terrore; in realtà vale lo stesso discorso della cipolla o dello scalogno: non tutti i bulbi sono pungenti ed indigesti né si conservano per lo stesso periodo di tempo, e acquistare quello giusto e/o trattarlo nel modo corretto fa davvero la differenza.
Anzitutto, per il nostro Chimichurri abbiamo bisogno di un aglio che regali il suo indistinguibile profumo, arrivando al palato prima degli altri per poi lasciare spazio alla freschezza di erbe e dei restanti ingredienti; il mio consiglio verte su un Vessalico, un Rosa di Lautrec o un Rosso di Sulmona, tutte varianti digeribili, aromatiche e che si conservano a lungo. Per prepararlo al meglio schiacciatelo, spelatelo e togliete l’anima, per poi tritarlo finemente; spremetelo quindi con la punta del coltello, in modo da far fuoriuscire l’acqua e privarlo del suo carattere pungente.
Prezzemolo: senza dubbio la preparazione delle erbe è la più difficoltosa della ricetta, in quanto fanno della freschezza il loro punto di forza. Prendete quindi un bel mazzo di prezzemolo e togliete le foglie dai gambi, poiché l’amarognolo che li contraddistingue non si addice a questo tipo di salsa; avvolgetele bene su se stesse facendo una sorta di rotolo, stando attenti a non pressarle, e tritatele finemente con un coltello ben affilato o una mezzaluna. Meno verde rimarrà sul vostro tagliere, meglio avrete fatto il vostro lavoro.
Origano: vale lo stesso discorso appena riportato, senza se e senza ma. Utilizzate se possibile l’origano fresco, e in caso contrario fatelo reidratare in poca acqua, scolando poi l’eccesso.
Peperoncino: calabresi, toglietevi il piccante dalla testa; non solo non è previsto dall’originale, ma per le caratteristiche del prodotto finito mi sento anche di sconsigliarvelo, in quanto tenderebbe a coprire tutto il resto. Ciò che vi serve è il profumo, meglio se concentrato in una variante secca e tritata con tanto di semi, sempre che non apportino una dose eccessiva di capsaicina.
Una delle varietà migliori allo scopo è a parer mio il Pimento, profumato e tra i meno piccanti della scala.
Sale: fino, possibilmente tritato al momento, serve a donare l’equilibrio più che la sapidità. Io ormai fatico a staccarmi dal mio fedele Sale Rosa dell’Himalaya per la sua mineralità, ma è malattia pura, non fateci caso.
In barba ai puristi, vi elenco qualche piccola variazione mia e non, pronto a ricevere il martello in faccia da chi “Io il Chimichurri lo preparavo con James McCurry quando ancora succhiavi il latte dalla mamma, non me lo devi toccà!”
Eccheppalle.
Vino rosso: un optional che arriva direttamente dal sopracitato Churrasco, il fantastico libro di Evandro Caregnato. Non fatevi vedere con i cartoni o le bottiglie da un euro del market sotto casa, perché qui divento cattivo. Chiariamoci: non vi chiedo un Amarone della Valpolicella (anche perché mi ammazzereste il prezzemolo), ma nemmeno il rosso più scrauso, in quanto apporterebbe solo ulteriore acidità a quella già presente, e per di più di cattive origini.
Piuttosto, le cantine offrono ormai una vasta gamma di vini da tavola, dall’ottimo rapporto qualità/prezzo e di provenienza sicura. Scegliete quindi un buon vino fermo, tra i 12 e il 14 gradi, non eccessivamente invecchiato; anche qui, io ho una spasmodica malattia per il Valpolicella e ho usato un ottimo Classico Superiore della cantina Benedetti “La Villa” di Negrar, ma va benissimo un buon Sangiovese puro, senza diventare matti: profumato, pulito e senza fronzoli, adatto ad apportare il giusto grado aromatico alla ricetta.
Origano secco: altro optional sempre della Caregnato school; assaggiate la vostra salsa, e se il sentore di origano non vi soddisfa aggiungetene una piccola quantità disidratata per farlo arrivare alle vostre papille gustative.
Paprika dolce affumicata: è la mia spezia preferita, non potevo farne a meno; aggiunge una nota tostata di peperone che arriva subito dopo l’aglio, ed è un ponte davvero spettacolare in tutte le salse. Ne basta poca e di qualità, non fatemi vedere i barattoli della Cannamela vi prego, un cospicuo ordine di roba seria e siete a posto per tutta la vita.
Scorza di limone: in una salsa fresca, dico io, il finale dev’essere fresco; una grattata della scorza di mezzo limone (non trattato, o ve meno!) e siamo a cavallo. Eviterei il Lime, troppo aspro e meno agrumato, ma dipende dal vostro gusto.
Occhio a non arrivare alla parte bianca, eccessivamente amara e in contrasto con la ricetta.
Zucchero di canna: siamo al finale con il botto, me ne rendo conto; qui i puristi arriveranno a staccarmi braccia e gambe, ma proprio non ce l’ho fatta. Vi assicuro che, assaggio dopo assaggio, sentivo la mancanza di qualcosa, di un ingrediente che arrotondasse il gusto e bilanciasse il residuo pungente dell’aglio e l’acidità dell’aceto, e che sapevo essere lo zucchero. Alla fine ho ceduto: un cucchiaino e via, non se ne parla più.
Vi assicuro che ha svolto egregiamente il suo compito, per cui accetto volentieri la scomunica.
Avendo trattato in lungo e in largo le accortezze per ogni ingrediente, rimane ben poco da dire, se non le dosi di massima e qualche consiglio che mi sento di includere.
Partite emulsionando metà dell’olio con l’aceto e aggiungete l’aglio tritato, che rilascerà i suoi aromi mentre preparate il resto degli ingredienti. Aggiungete quindi le erbe, il peperoncino, la paprika e aggiustate di sale, per poi mettere il resto dell’olio in modo da coprire al meglio gli ingredienti e mescolare il meno possibile.
Ora è il turno del vino rosso e dello zucchero di canna; terminate poi con la scorza di mezzo limone, rigorosamente grattata al momento.
Ci tengo a ripetere che le sono dosi di massima e che non si tratta di una ricetta.
Assaggiate continuamente la salsa, soprattutto nelle fasi finali, in quanto i vostri ingredienti potrebbero essere diversi dai miei, e come tali il prodotto finito. Date quindi i ritocchi necessari perché la salsa sia completa, bilanciata e perché nessun ingrediente stoni sul resto.
Tenete presente che, come in ogni preparazione in cui figura l’aceto, l’acidità tenderà sempre a prevalere nella prima fase. Non ve ne preoccupate, il periodo di macerazione in frigorifero darà modo agli ingredienti di amalgamarsi gli uni con gli altri terminando l’opera.
Fatela quindi con un paio di giorni di anticipo, travasatela in un barattolo in vetro che abbia un tappo degno di questo nome e abbiate cura di dargli una mescolata di tanto in tanto, in quanto inizialmente il vino rosso tenderà a posizionarsi sul fondo.
Tiratela fuori un paio d’ore prima di servire, e quando è il momento assaporatene gli aromi.
Cosa sentite?
La decisione dell’aglio, seguita dall’affumicato della paprika e dal profumo del peperoncino, accompagnata dal sapore mediterraneo dell’origano e dalle note amarognole ma gentili del prezzemolo; il tutto arrotondato dall’olio, dallo zucchero di canna e dal vino rosso, esaltato dall’aceto e rinfrescato dalla presenza finale della scorza di limone.
Torna?
I miei complimenti allora, avete centrato l’obiettivo.
Non vi resta che conservarlo in frigorifero, sempre che ve ne sia rimasto.
Di Alessandro Trezzi, blogger BBQ4ALL di Pulp Movie House.
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