Il Barbecue è un mondo fatto di scoperte.
Una volta individuati gli infiniti risvolti della cottura sul fuoco, il primo impatto è folgorante, al punto da sottoporre l’aspirante Pitmaster all’inevitabile e debilitante quesito: “ma fino ad ora che ho fatto, dormivo?”
Il primo passo è l’abbandono delle accensioni improvvisate ed eterne, delle salamelle aperte o bucate e delle braciole tristi, per non parlare di quelle povere costine di maiale maltrattate, bruciate e difficili da masticare.Il passo successivo, poi, è più breve di quanto si pensi e conduce a tutta quella sfera che mai avremmo immaginato, resa memorabile da un semplice kettle (antipasti e aperitivi, primi piatti e persino dolci).
E il primo segreto per rendere ampia, eterna e piacevole tale scoperta è, al tempo stesso, la vera definizione della parola Barbecue: condivisione, convivialità, community.
Come in tutte le grandi famiglie, in quella dei Pitmasters non è raro che personalità acerbe come la mia rimangano spesso abbagliate dalla bravura e dalle creazioni di veri e propri fenomeni. A me successe circa un anno fa, quando un ragazzo bresciano di nome Stefano Noli tirò fuori dal cappello una foto in sezione di alcune tra le Beef Ribs più belle che abbia mai visto: un bark dallo spessore equilibrato e ben caramellato, lo smoke ring visibile, quasi verniciato, ma soprattutto una moisture che grondava letteralmente fuori dallo schermo, al pari della mia saliva.
Pochi mesi dopo, in occasione del Prime Uve Invitational Barbecue Championship del 2016, Stefano ebbe l’onore di far assaggiare il suo piatto forte nientemeno che a Steven Raichlen, uno dei più famosi ed eterni Guru del BBQ, che lo abbracciò esclamando:
“Como burro!”
Le cosiddette Dinosaurs entrarono di fatto nella mia To do list, e ci è voluto molto, troppo tempo prima che venissero finalmente depennate.
Il motivo risiede principalmente nella scelta della materia prima; nella gran parte delle macellerie è possibile reperirle chiedendo del biancostato, che si tratta tuttavia del taglio più vicino alla reale definizione tra quelli presenti nel nostro paese, dove la lavorazione ostica, la categorizzazione in terza scelta e il destino in una pentola d’acqua, regalano ben poca attenzione a questo fantasmagorico prodotto.
Il manzo italiano, inoltre, ha tipicamente una carne troppo magra per essere destinata alle preparazioni del Real American Barbecue, dove la presenza di una buona marezzatura non è solo etica ma è tecnicamente fondamentale per conservare la moisture (succosità) durante la cottura.
La salvezza, tuttavia, porta il nome di Short Ribs Black Angus USA PRIME. Prendiamoci un minuto di silenzio per contemplare la meravigliosa texture di queste due bestiole, precisamente Beef Short Ribs, che presentano la carne totalmente al di sopra dell’osso a differenza delle Beef Back Ribs, dove è invece in posizione centrale.
Fatto? Bene, torniamo in modalità didascalica e vediamo insieme come rendere giustizia a questo splendido animale.
La scelta del metodo
Recuperata la materia prima, parte lo studio ossessivo-compulsivo, atto a concentrare gli insegnamenti e gli spunti dei più grandi Pitmaster e trovare la via che più si adatta al mio gusto.
Mixon, Franklin, Meathead, Husbands, Hart e lo stesso Raichlen: sostanzialmente le strade per la preparazione delle fantomatiche costine di dinosauro sono due (al pari della diatriba Kansas-Memphis sulle Pork Ribs), come ben sottolinea Chef Tom Jackson di All Things BBQ:
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Un wet mode, che seguendo la “vecchia scuola” di Myron Mixon prevede una costante idratazione della carne con una mop sauce e/o un passaggio in foil prolungato e in presenza di liquidi, il tutto a favore di una tenderness estrema e di una complessità di sapori e contrasti dovuti alla salsa, ma di un bark logicamente sacrificato;
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Un dry mode diametralmente opposto, forte della tradizione Texana di Aaron Franklin, che punta alla valorizzazione della carne utilizzando un rub semplice e senza ricorrere al foil o a spennellate di salsa, esaltando la sapidità e la croccantezza propria del bark.
Questione di gusti, la cucina ne è piena.
Per me la prerogativa assoluta delle preparazioni al barbecue deve essere il bark: una carne che presenti quella crosticina scura, saporita ed inebriante, il primo ed entusiasmante incontro con il morso, che conservi comunque una buona moisture interna, perché a mio avviso una cosa non esclude assolutamente l’altra.
Vada quindi per il dry mode.
Il Trimming
La prima operazione da svolgersi riguarda ovviamente il trimming, rimuovendo anzitutto la pleura, quella membrana proteica a contatto con le ossa e costituita da elastina, che al contrario del tessuto connettivo non si scioglie in cottura e rimane fastidiosa al morso; è sufficiente controllare che negli angoli del pezzo non vi siano già dei lembi rialzati, o in caso contrario infilare il retro di un cucchiaino tra l’osso e la membrana, per poi sollevarla fino a rimuoverla, aiutandosi con un foglio di carta assorbente.
Tolta la pleura, occupiamoci del grasso di copertura; non va assolutamente rimosso nella sua interezza, in quanto componente essenziale per mantenere sapore, umidità e morbidezza nella carne. Tuttavia i grossi cumuli e gli agglomerati, sciogliendosi in cottura, potrebbero portarsi via grandi quantità di rub, impedendo in quei punti la formazione del bark.
Mano quindi al fidato (ed affilato) coltello da disosso, utile anche per pareggiare quanto più possibile l’imponente slab ed evitare di avere zone con tempi di cottura troppo diversi.
Tenete conto che, a differenza delle costine di maiale, in quelle di manzo l’elevata quantità di carne presente al di sopra dell’osso potrebbe far sì che, una volta ritiratesi le fibre per effetto del calore, vi siano dei dislivelli naturalmente presenti e dovuti all’eterogeneità strutturale in quei punti. Pareggiarle quindi in questa fase consente di ottenere un risultato quanto più possibile omogeneo.
Il Rub
Qui le riflessioni si sprecano.
Come ben saprete il rub è una di quelle cose che, insieme al fumo e alla salsa barbecue, costituisce la firma del Pitmaster.
Spesso e volentieri quindi le miscele di spezie atte ad esaltare preparazioni come il Brisket si comportano egregiamente anche per questo taglio.
Io tuttavia preferisco concentrarmi sulle prerogative del dry mode, e quindi sulla ricerca di un bark sapido e croccante che permetta alla carne di valorizzare le sue qualità.
Rimango quindi ancorato alla via texana di Franklin, Husbands e Hart, utilizzando prevalentemente sale e pepe nero macinato (se lo macinate al momento avete la mia più sincera stima, oltre che tutto il suo aroma perfettamente conservato) e aiutandomi con un velo di salsa Worcester, per farli aderire alla carne; anche l’olio EVO andrebbe più che bene, ma mi piace l’idea di quel piccolo tocco balsamico e piccante combinato alla complessità del manzo.
Le quantità dipendono parecchio dalla caratteristiche della carne e dal suo spessore, ma per fare una stima alla larga parliamo di circa 10 g di sale e 10 di pepe nero per ogni chilo di bestia.
E’ importante non lesinare sul rub (senza ovviamente esagerare), proprio per coadiuvare la disidratazione superficiale e permettere la formazione di quel bark tanto amato.
Gli ingredienti previsti e facoltativi della filosofia texana sono aglio e cipolla in polvere (che insieme a sale e pepe formano i canonici spg e spog), che contenendo grandi quantità di glutammato monosodico sono naturali esaltatori di sapidità.
Io sono innamorato di Aaron Franlkin e seguo ciecamente la sua strada, ma potete benissimo usufruire di questi validi aiuti, aggiungendone al mix di sale e pepe in proporzione 1 : 3 (e quindi, per farla breve, una parte di cipolla in polvere, una parte di aglio in polvere, tre parti di sale e tre di pepe nero).
Una volta fatto aderire il Rub, il mio consiglio è quello di attendere almeno un’ora prima di iniziare la cottura, per avviare il processo di denaturazione della carne e far fuoriuscire la prima umidità superficiale.
Il setup del dispositivo e la scelta del legno
Anche qui le scuole si dividono, e non è detto che siano necessariamente schierate tra dry e wet mode.
Di base, tra i Pitmaster c’è chi sceglie di cuocere le Beef Ribs stabilizzando il dispositivo a 225 °F (107 °C) per ottenere una maggior succulenza, chi mantiene una più elevata temperatura di 275 °F (135 °C) puntando sulla complessità aromatica della crosta superficiale e chi si stanzia in una via di mezzo a 250 °F (121 °C).
Capirete senz’altro come le assunzioni fatte mi abbiano portato a scegliere la seconda via; giù quindi di Minion Method, con una piccola quantità di brace accesa affiancata ad un cumulo di carbone spento, che avvierà piano piano la combustione grazie al flusso di ossigeno controllato dalla ventola inferiore.
Per quanto riguarda il legno (e quindi l’essenza per l’affumicatura) ho scelto dei chunks di quercia, che trovo perfetta per qualsiasi abbinamento e palato, in quanto di media intensità e dal fondo vagamente amarognolo; certo, l’abbinamento per eccellenza è l’hickory, il noce americano, intenso e fortemente aromatico ma difficile da dosare.
Nulla vi vieta tuttavia di utilizzare l’evergreen, il ciliegio, con il quale è impossibile infastidire anche i meno abituati al fumo.
Infine, l’utilizzo del water pan dipende da quale dispositivo state utilizzando; nel caso in cui si tratti di un kettle non è necessario, in quanto l’umidità naturalmente presente nella carne è sufficiente per saturare la camera di cottura. Nel caso invece si tratti di uno smoker, riempite la ciotola con circa 2 kg di sale, che a temperatura ambiente assorbe umidità per poi rilasciarla in cottura, o di sabbia, che al contrario del sale non rilascia umidità e scaldandosi come un materiale refrattario aiuta a mantenere stabile la temperatura.
Last but not least, togliete dal frigorifero la carne almeno un paio d’ore prima di cuocerla, in modo da evitare un’eccessiva dose di umidità, sviluppata a causa della bassa temperatura.
La cottura: tips, trik and arrival
Stabilizzato il dispositivo e poggiati i chunks sulle braci ardenti, è il momento di partire con la cottura. Un’idea tutt’altro che cattiva è quella di portare la camera a 285 °F per la prima fase, permettendo al bark di fissarsi in maniera repentina; non vi sto a dare i tempi, conoscete benissimo la natura empirica del Barbecue, ma vi posso dire che per le mie manze da circa 2.5 kg ho constatato un risultato soddisfacente sulla superficie dopo circa un’ora.
Una considerazione importante da farsi è la seguente: riprendendo le osservazioni fatte da Chef Tom, Aaron Franklin (e anche Stefano Noli) per quanto riguarda le Beef Ribs purtroppo non esiste una vera e propria temperatura di arrivo, in quanto il risultato può variare in base al peso, alla struttura, alla razza e al tipo di marezzatura.
Sebbene quindi si possa tenere conto dei canonici 203 °F del Brisket (95 °C) come valore indicativo, l’unica soluzione veramente efficace è il cosiddetto Probe Test, che consiste nell’infilare il termometro a sonda in più punti e verificare che la carne abbia la consistenza tipica di un panetto di burro lasciato ammorbidire a temperatura ambiente.
Ancora una volta, parlare di tempi sarebbe deleterio, ma per darvi un metro di misura considerate che i bestioni del peso sopra descritto erano pronti dopo circa 5 ore e 30 minuti.
Ulteriore consiglio è quello di tenervi a portata di mano della carta alluminio o, meglio ancora, della Butcher Paper, che consentendo una traspirazione minima permette di evitare quel fastidioso effetto “bollito”, primo terrore di un foil erroneamente eseguito.
Questo perché, se in prossimità del termine della cottura vi accorgeste che il bark risultasse troppo spesso, può essere utile un’ultima fase in wrap; ricordatevi però di asciugare leggermente le ribs prima di servirle, per far evaporare l’umidità formatasi sulla superficie e farne rinvenire tutte le splendide caratteristiche raggiunte in precedenza.
Un’ulteriore accortezza, specie in un kettle, è quella di vaporizzare di tanto in tanto dell’acqua sulle ossa esposte per evitare che brucino o ancora di avvolgerle con della carta alluminio.
Una volta pronte, lasciatele riposare in Isobox per almeno 60 minuti o per 30 minuti avvolte nella stagnola, per permettere ai succhi della carne di riacquistare densità e alla temperatura di scendere leggermente.
Ci siamo.
Tagliate le Dinosaurs Ribs tra un osso e l’altro, per poi ricavare delle fette e servirle, perché no, con del fresco e balsamico Chimichurri.
Enjoy your meal!
[ Crediti: Gianfranco Lo Cascio, Aaron Franklin, All Things Barbecue, Andy Husbands, Chris Hart, Myron Mixon, Stefano Noli | Immagini: Stefano Noli ]
Posso dire una cosa: complimenti per il sito e in questo caso per quest’articolo. Le mie costole di dinosauro le ho fatte seguendo il primo metodo “wet mode” (abbastanza inconsapevolmente). E adesso proverò con il mio kettle la via texana, usando comunque il waterpan, ma solo come stabilizzatore di temperatura. P.s. Mi state facendo venire voglia di comprare uno smoker.